Il regista |
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Rassegna in 5 film
- Tutto ciò che viene detto invece di essere mostrato è perso per il pubblico
- Quando facevo il critico pensavo che un film… dovesse esprimere simultaneamente un’idea del mondo e un’idea del cinema
- Il film di domani mi appare ancor più personale di un romanzo individuale e autobiografico, come una confessione o come un diario. I giovani cineasti si esprimeranno in prima persona e ci racconteranno ciò che è loro capitato: potrà essere la storia del loro primo amore o più di recente la loro presa di coscienza politica, un racconto di viaggio, una malattia, il loro servizio militare, il loro matrimonio, le loro ultime vacanze e tutto ciò necessariamente piacerà perché sarà vero e nuovo… il film di domani sarà un atto d’amore
- esiste, nell’idea stessa dello spettacolo cinematografico, una promessa di piacere, un’idea di esaltazione che contraddice il movimento della vita, cioè la china discendente: degradazione, invecchiamento e morte
- la cinepresa soggettiva è il contrario del cinema soggettivo: quando ci si sostituisce al personaggio è impossibile identificarsi in lui
- Oggi mi rendo conto di una cosa: girare nei posti reali era una piccola conquista della Nouvelle Vague valida per alcuni anni, prima dell'arrivo del colore, e in reazione ai film del tempo; ma oggi di nuovo si sa che l'arte si ricrea in studio: se si vuole ottenere qualcosa di artistico bisogna tornare allo studio, se no si ha solo una vaga realtà deformata.
- Si dice sempre che il cinema sonoro è venuto troppo presto, cioè in un momento in cui i cineasti del muto si stavano perfezionando molto; poi di colpo il sonoro ha troncato queste ricerche visive, ci si accontentò pigramente di riprendere gli spettacoli di Broadway e di filmarli alla carlona.
- Io rifiuto sempre di parlare in termini generali. Dire che quest'anno il cinema francese va meglio è una banalità, come dire «quest'anno gli arabi sono meno pigri, i negri sono diventati più intelligenti…». Martin Luther King e Amin Dada erano entrambi neri, eppure… Secondo me il razzismo inizia con le generalizzazioni.
- Rossellini era molto severo, odiava gli esteti e il dandysmo. Aveva una salute di ferro, al limite quasi eccessiva perché non accettava l'idea che un artista sia una persona che ha delle nevrosi (gli artisti sono tutti un po' nevrotici); quasi quasi ti domandavi se era un artista… Non avevo mai visto uno così poco nevrotico. Si parla delle "fantasie" di un Fellini: Rossellini invece non aveva fantasie, era un uomo che amava la scienza, le cose esatte. Non l'ho mai sentito raccontare una storiella tipo: «un tizio incontra un altro in strada e gli dice…». Lui diceva: «Un russo in una strada di Mosca incontra…». Erano fatti di cronaca accaduti, non raccontava mai storielle inventate. Aveva il senso dell'umorismo ma odiava tutto quello che non era reale, non amava la finzione. Di notte leggeva libri di storia e libri scientifici. Quando arrivavamo al suo hotel la mattina per far colazione con lui ti raccontava che, a partire dal momento in cui era stato inventato il cotone, la mortalità era diminuita di tanto, eccetera, e che dopotutto ci si poteva fare sopra un film.
- Se uno scegliesse di far cinema perché ha qualcosa da dire sarebbe molto ingenuo, perché farebbe più in fretta a dirlo francamente in una conferenza o in un programma televisivo. Quindi uno non fa cinema perché ha delle cose da dire, ma perché ha qualcosa da mostrare al pubblico. In questo gioco – perché si tratta di un gioco – c'è una grande parte d'infanzia.
- Quando l'inquadratura è troppo "plastica", troppo ricercata e ha la pretesa di assomigliare ad un quadro, ho l'impressione che il nastro si fermi, è come se si proiettassero delle diapositive! Per me un film deve "scorrere" come una musica, deve far pensare ad un concerto più che ad una serie di quadri di un museo. Penso che il cinema abbia molto a che vedere con la musica perché è un’arte della durata, per questo è ancora la musica che gli somiglia di più. I film che preferisco sono film «musicali», che danno cioè l’impressione di musicalità. Come in un concerto, in un film si susseguono momenti meditativi, agitati, ci sono dei crescendo, il finale.
- Per esempio Welles mi piace molto perché è musicale: le immagini nei suoi film sfilano senza autocompiacimenti; un'immagine da sola non ha valore, è la concatenazione, lo scontro delle une con le altre che conta.
- Mi sembra che più che a delle storie Fellini si interessi a degli episodi, costruiti del resto in maniera molto musicale, e a dilatarli sempre di più: prima duravano cinque minuti, poi una decina, e adesso una ventina di minuti. All'inizio la "musica" ha pochissimi strumenti, poi si dilata (Rota fa bene il suo lavoro), intervengono nuovi strumenti, e alla fine c'è una sorta di sinfonia.
- Il primo anno (1959) fu magnifico, eravamo tutti considerati degli innovatori, dei geni. Ma già a partire dal secondo anno hanno cominciato ad attaccarci, anche perché alcuni film erano andati male. "Jean Gabin regola i conti con la Nouvelle Vague", così venne lanciato un film in cui Jean Gabin si confrontava con dei giovani; la parola Nouvelle Vague aveva ormai una connotazione negativa. Del resto non fummo noi a coniare quel termine: parlando dei tre film francesi presentati a Cannes nel 1959 (Hiroshima mon amour di Resnais, Orfeu negro di Camus e Les quatre cents coups / I 400 colpi) «L'Express» scrisse: «è arrivata la Nouvelle Vague!».
- Quando filmo un sogno in un film faccio chiaramente vedere che si tratta di un sogno, non mi piace filmare delle inquadrature immaginarie presentandole come reali; non si deve giocare con la buona fede del pubblico, non voglio che la gente stia lì a scervellarsi sul significato nascosto di un'inquadratura, o sulla collocazione di una scena. Un film è come un discorso che si rivolge a della gente che attende nel buio di una «sala-chiesa»; questo discorso deve essere chiaro, avvincente, intrigante. Faccio dei film «pour intriguer et envoûter», per affascinare e stregare, non per "educare".
- Bergman ha esercitato una grandissima influenza. Era un solitario, si scriveva le sue sceneggiature e le filmava, guardando i suoi film abbiamo capito meglio quello che avevamo voglia di fare. Forse perché era più giovane, Bergman ci sembrava un modello meno inaccessibile di Renoir o di altri grandi cineasti che ammiravamo. Si può ammirare Hitchcock senza pensare di imitarlo, Bergman invece era un giovanotto che dava l'impressione di scrivere sempre il suo primo romanzo, di parlare di sentimenti e di cose che gli erano accadute. Inoltre Bergman aveva una grande sincerità, e per di più era "triste", tutte caratteristiche che piacciono ai giovani. i suoi dialoghi erano molto diretti, semplici, antiletterari. Ci dava l'impressione che bastasse essere sinceri, il talento sarebbe venuto dietro. Questa era la lezione di Bergman.
- Quando i nemici della Nouvelle Vague cominciarono a parlare di fallimento («la Nouvelle Vague a été très décevante» ribadivano Melville e il critico Claude Mauriac in una polemica televisiva) allora pensai che bisognava rivendicare con fierezza l'appartenenza a quel movimento, come di essere stati ebrei durante l'Occupazione. Non ci potevano accusare di non aver mantenuto le promesse: volevamo solo fare dei primi film a prezzo contenuto; il nostro esempio è stato seguito in tanti paesi del mondo, e questo non è poco, mi pare. Non avevamo un preciso programma estetico, volevamo solo ritrovare una certa indipendenza, la freschezza della prima epoca del muto, andata persa a metà degli anni Venti, quando i film erano diventati cari. Purtroppo le qualità del nuovo cinema – una certa leggerezza, una certa grazia – vennero scambiate per frivolezza e ingenuità. È vero, non abbiamo affrontato certi argomenti impegnati (la guerra d'Algeria, ad esempio). Ma i sentimenti, le relazioni umane, non sono problemi che interessano tutti?
- Direi che i film si fanno con il talento e la modestia. Può darsi che io manchi d'ambizione, ma in tutta modestia mi sembra di poter dire che ho tuttora più progetti che tempo per farli. È per questo che faccio almeno un film all'anno, ma potrei girarne molti di più. Non sono la voglia e i progetti che mancano, manca il tempo. Capisco però che, se uno vuol creare delle opere memorabili che impressionano i contemporanei, allora si dovrà accontentare di fare un film ogni due – tre anni. Non è il caso mio. A volte mi vengono delle strane voglie, delle scommesse, per esempio di rifare poniamo Il ponte sul fiume Kwai ma mettendo l'accento su un personaggio che era sacrificato in quel film. Un modo per far sentire il modesto suono della mia campana…
- Coltivare il piacere di lavorare è capitale per chi fa dei film, la penso esattamente come Fellini: voglio sentire in un film il piacere (oppure l'angoscia) di fare cinema, non la fatica, la routine; voglio sentire delle vibrazioni, nella gioia o nell'angoscia. Fellini oggi è il più grande. Insieme a Bergman, ma Bergman ama solo il cinema, non ama la vita (credo), mentre Fellini ama la vita. I suoi film sono l'esaltazione della vita.
- Kubrick è veramente un ingegnere che esce dal Politecnico. È molto dotato, ma resta un fotografo. E c'è una certa differenza tra fotografia e caricatura: Fellini viene dal disegno, dalla caricatura, fin dall'inizio ha preso l'abitudine di "inventare" dei personaggi; Kubrick li fotografa, e non è la stessa cosa. Penso che ci sia molto più ispirazione e fantasia, e molto più umorismo, in Fellini.
- Tutta l'opera di Hitchcock illustra delle paure: paura del vuoto, paura di cadere, di perdere l'equilibrio. È riuscito molto bene a trasformare tutto questo in sceneggiature che funzionano bene. Non ha mai preso la patente né guidato la macchina per paura di incidenti, viveva ritirato dalla vita, anche a causa del suo fisico non ha mai fatto sport, mai sciato, mai nuotato, non si riesce ad immaginare Hitchcock a cavallo. Se Rossellini faceva parte della vita, Hitchcock, al contrario, era fuori dalla vita. Era entrato nel cinema come si entra in convento… Disegnava scrupolosamente ogni inquadratura, disegnava tutti i suoi film da solo e seguiva fedelmente i modelli… Penso che l'influenza di Hitchcock sul mio cinema sia stata maggiore di quella di Rossellini, non nella scelta dei soggetti ma nel modo di trattarli.
- Non che tutta la produzione cinematografica debba somigliare ai film di Hitchcock, ma lui è quello che ha riflettuto meglio sul cinema. Nei film c'è una parte enorme lasciata al caso, ma nei suoi lavori lui ha cercato di eliminare il più possibile la casualità.
- Persino Fellini deve avere avuto delle teorie. Se ci si fa caso, ogni scena di un suo film è costruita come un numero di cabaret, di circo: inizia con un personaggio – l'assolo di uno strumento –; poi ne entra in scena un secondo, poi un terzo e così via, e intanto nella colonna sonora intervengono nuovi strumenti; a un certo punto appaiono davanti alla cinepresa oggetti bizzarri (veli, fumoni, cose anomale che fanno sì che tutto diventi misterioso), in una crescente progressione visiva e musicale. Alla fine la sinfonia esplode in una sorta di apoteosi. E si passa alla sequenza successiva. L'amore per il circo, per il cabaret deve averlo indotto a costruirsi una specie di teoria. La quale, evidentemente, vale solo per lui, perché Bresson, ad esempio, cerca esattamente il contrario: fare un film che formi una sola linea, come Dreyer… registi come Bresson o Dreyer fanno in modo che lo schermo sia grigio o bianco dall'inizio alla fine del film. Funzioniamo con le teorie.
- Sono un irriducibile individualista e temo che morirò tale. Sono sempre stato diffidente verso tutto ciò che viene deciso in gruppo, provo sempre la stessa attrazione per i cuori solitari, sono sempre più convinto che non siamo niente senza gli altri, penso sempre a Chaplin, alla sua tenace lotta per cercare il cibo per la giornata. Tutta la sua vita è stata una lotta.
- È una tentazione grande unirsi a dei gruppi quando si hanno dei problemi personali; un modo per dimenticare, per evitare di affrontare il problema; ma si rischia di pensare allora che le soluzioni siano di ordine collettivo, un bel guaio.
- Fontenay diceva una frase formidabile: «gli uomini hanno inventato il lavoro perché non hanno il coraggio, o la possibilità, di dormire, fare l'amore, divertirsi per ventiquattro ore, allora si occupano lavorando». Un terzo del tempo al sonno, un terzo al lavoro, un terzo alla libera iniziativa. Se si esce da questo schema triadico ci si sente perduti. Questo è il vero problema di sempre.
- Sono sempre stato contro gli slogan tipo: «Tutto è politico!». Milan Kundera si è violentemente opposto a questo slogan, che trovo assolutamente stupido. Certe cose della vita hanno dei rapporti con la politica, ma la vita affettiva della gente non ha nulla a che fare spartire con la politica. Questo slogan ci ha avvelenato la vita per troppi anni, ha prodotto dei discorsi noiosi, dei brutti libri e dei brutti film.
- A parer mio, la coscienza sporca non ha mai fatto fare un buon film o un buon libro, al contrario, ha fatto fare dei brutti film politici e dei pessimi western di sinistra. Gli americani sono forse più adatti ad esaltare la guerra che a condannarla…
- La mia religione è sempre stata il cinema, e siccome non sono un tipo polivalente - confesso di non essere mai riuscito a prendermi sul serio - non ho mai considerato necessario concedermi il lusso di una seconda religione. Il Messia per me è stato Charlie Chaplin, e la sua morte mi ha traumatizzato come quella di un padre. Chaplin mi ha realmente aiutato a vivere, e ho creduto in lui religiosamente. Ma anche se da ragazzo non ho mai sentito l’esigenza di entrare in una chiesa, non è che io sia anti-clericale. Rispetto tutto e tutti.
- Mi ricordo di un film di Bergman, Luci d'inverno, che amo molto: alla fine il pastore celebra la messa nella chiesa vuota. Ho avuto l’impressione – o mi è piaciuto interpretarlo così – che Bergman lanciasse un messaggio "professionale" ai colleghi registi: anche se non c’è più nessuno nei cinema, bisogna continuare a fare film.